Notule

 

 

(A cura di LORENZO L. BORGIA & ROBERTO COLONNA)

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XXI – 16 marzo 2024.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: BREVI INFORMAZIONI]

 

Malattia di Alzheimer: il gene DEK regola la vulnerabilità selettiva dei neuroni. Jean-Pierre Roussarie della Boston University, Patricia Rodriguez-Rodriguez e numerosi colleghi hanno identificato il proto-oncogene DEK come regolatore della patologia tau nel secondo strato della corteccia entorinale, che è il primo ad accumulare aggregati tau e a degenerare nella fase prodromica della malattia. La definizione da parte dei ricercatori di un meccanismo autonomo dalla cellula, che lega la patogenesi alzheimeriana allo specifico tipo di neurone, fornisce anche un’evidenza unica che la deregolazione dell’omeostasi sinaptica è centrale nella patologia tau della malattia di Alzheimer. [Cfr. Brain – AOP doi: 10.1093/brain/awae051, 11 March, 2024].

 

Scoperta una via ansiogena faringe-cervello che spiega sintomi e somatizzazioni. Quante volte dei pazienti riferiscono che per un boccone che stenta a essere deglutito, per sintomi di faringite, per contrazioni faringo-esofagee da freddo si scatena in loro una reazione ansiosa intensa, e quante volte la faringe è sede di manifestazioni sintomatologiche senza danno organico (somatizzazione) capaci di generare allarme? Wan Zhao e colleghi hanno individuato una via che collega la ricca innervazione faringea a circuiti di risposte ansioso-emotive. I segnali sono trasmessi ai neuroni sensoriali di vago e glossofaringeo del ganglio nodoso-giugulare-petroso del topo da cui originano proiezioni ai neuroni noradrenergici del nucleo del tratto solitario (NTSNA), che proietta al nucleo ventrale del letto della stria terminale (vBNST) che induce comportamenti equivalenti dell’ansia umana. [Cfr. PNAS USA – AOP doi: 10.1073/pnas.2312136121, 2024].

 

Kdm1a protegge l’identità dei neuroni prevenendo l’invecchiamento precoce. Uno studio che ha combinato l’analisi di dati umani con la ricerca su modelli murini, condotto da Angel Barco con Beatriz del Blanco e colleghi ha stabilito che Kdm1a è essenziale nel preservare l’identità dei neuroni, reprimendo i geni che non devono essere espressi. La perdita di Kdm1a riproduce l’espressione genica inappropriata che si verifica nell’invecchiamento, suggerendo anche un ruolo di regolazione epigenetica rilevante nei casi di disabilità intellettiva. [Cfr. Nature Communications – AOP doi: 10.1038/s41467-024-45773-3, 2024].

 

Un programma astrociti-neuroni declina nella schizofrenia e nell’invecchiamento. Nelle persone in cui i neuroni corticali maggiormente esprimono geni codificanti dei costituenti sinaptici, gli astrociti corticali più intensamente esprimono geni sinaptici, hanno scoperto Emi Ling e colleghi, che hanno battezzato questa funzione SNAP (synaptic neuron astrocyte program). Su 191 soggetti dai 22 ai 97 anni, sani o affetti da schizofrenia, i principali neuroni inibitori (interneuroni GABA) ed eccitatori (glutammatergici) presentavano un declino del livello dello SNAP in proporzione al grado di invecchiamento e alla gravità della psicosi. L’individuazione di questo programma astrociti-neuroni definisce al livello cellulare il cambiamento di espressione genica associato al declino cognitivo. [Nature – AOP doi: 10.1038/s41586-024-07109-5, 2024].

 

Stadio dello specchio: è il tatto che facilita lo sviluppo del riconoscimento visivo. Intorno a un anno e mezzo di età, i bambini si riconoscono allo specchio, spesso con una reazione di gioia che lo psicoanalista Jacques Lacan aveva definito “assunzione giubilante” dell’identità. Questa tappa dello sviluppo è stata in passato considerata un vero e proprio stadio dell’evoluzione neuropsichica e le è stato attribuito un valore cruciale, solo in parte ridimensionato. Ora Jeffrey Lockman e colleghi dell’Università del Texas ad Austin hanno scoperto che il tatto ha un ruolo chiave nello sviluppo di questa capacità visiva di riconoscersi. Hoffer aveva già a metà del secolo scorso compreso che il toccarsi e sentirsi toccare dalla propria mano aveva un ruolo nella scoperta del sé corporeo: this double touch is a lesson in self discovery, in quanto stabilisce la differenza con tutte le altre cose che il bambino tocca. Lo studio texano, ponendo dischi vibranti sulla fronte e sulle guance dei bambini appena in grado di deambulare autonomamente, ha dimostrato che l’abilità di individuare il punto del viso dove è posto il disco e afferrarlo, precede sempre la capacità di riconoscersi allo specchio; e dunque che lo sviluppo di attività auto-diretta verso il sé intorno ai 14 mesi è una tappa obbligata per giungere all’autoconsapevolezza necessaria a identificarsi nell’immagine riflessa. [Cfr. Current Biology – AOP doi: 10.1016/j.cub.2024.02.028, 2024].

 

Un’osservazione sulla concezione dello sviluppo cerebrale implicita nella notula precedente. Non solo si può rilevare il limite, definito nel gergo della logica sperimentale del “post hoc, propter hoc”, ossia la mancanza di dimostrazione di un nesso di causalità dato per implicito in una successione temporale di tappe dello sviluppo, ma anche l’abbandono della prudenza di Hoffer che considerava l’esperienza tattile del sé “una lezione”, non la chiave unica. A nostro avviso, l’esperienza del toccarsi ha sicuramente un ruolo importante in quella fase ed emerge perché noi possiamo vederla e razionalizzarla, ma nulla ci dice che allo stesso tempo e con sintesi informative corticali non si svolgano processi altrettanto importanti per la sfera visiva. E che tali processi non siano, momento per momento, integrati con quelli tattili. Pensate al lattante sul fasciatoio supino che si afferra il piede e sembra incantato a guardarlo e a guardare la propria mano che lo tiene, o quando avvicina la mano agli occhi e apre le dita fissandole a lungo. Da quanto sappiamo di neurofisiologia, le interazioni multiple e reciproche – basti pensare alle sintesi che avvengono nella corteccia parietale – sono la regola.

In una visione dello sviluppo del cervello come la nostra, che non concepisce linee parallele all’interno delle quali vi sono concatenazioni esclusive di causa-effetto, ma considera un’evoluzione complessiva di parti speciali che interagiscono in tanti modi, non trova posto una fase esclusivamente tattile che precede una fase compiutamente visiva della consapevolezza. Se così fosse, allora per un difetto genetico che invalida l’elaborazione dell’informazione tattile da parte della corteccia somestesica primaria, un bambino non potrebbe mai riconoscersi allo specchio. Ne dubitiamo molto. Per quanto ci riguarda, l’interessante e ben condotto studio di Jeffrey Lockman e colleghi non ha scoperto il drive tattile della coscienza di sé, ma ha fornito le prove di quanto, dopo l’intuizione di Hoffer (1949, 1950), è stato ed è insegnato in tutti i corsi di neurobiologia dello sviluppo umano. [BM&L-Journal Club, Marzo 2024].

 

Il nuovo fossile Attenborough’s strange bird, primo ad avere un becco senza denti. Il nuovo fossile, che ha ricevuto il nome del celebre naturalista e documentarista Sir David Attenborough, rappresenta la prima specie aviaria preistorica ad aver sviluppato un becco senza denti. Fa parte degli animali che andarono incontro all’estinzione di massa che si verificò 66 milioni di anni fa. Si spera che studiandolo si possa avere una risposta, almeno ipotetica, alla domanda: perché alcune specie di dinosauri progenitori di uccelli si estinsero e altre specie sopravvissero dando luogo ai volatili dei nostri giorni? [Fonte: Field Museum, Marzo 2024].

 

La misofonia scoperta di recente è prevalentemente acustica o psichica? Esattamente un anno fa Silia Vitoratou e colleghi pubblicarono un report in cui si definiva la misofonia (dal gr. miso- = avversione) quale diminuita tolleranza alla percezione acustica del masticare, inspirare-espirare rumorosamente dal naso e di altri suoni/rumori, presente in circa il 18% della popolazione del Regno Unito (51% donne, 48% uomini). Le persone che presentano misofonia non sono, come la maggior parte di noi, semplicemente infastidite o irritate dalle percezioni moleste, ma provano una vera sofferenza: se non possono sottrarsi all’ascolto si sentono come in trappola, impotenti e prostrate. Studiando il problema in questi giorni, abbiamo deciso di suggerire una prova delle tante che si possono escogitare per stabilire se la misofonia abbia una causa prevalente nella percezione acustica accentuata o nella elaborazione psichica di quelle frequenze sonore: sottoporre a confronto con la popolazione generale un campione di persone con orecchio assoluto (absolute pitch), ossia in grado di riconoscere le note suonate singolarmente senza dedurle dal confronto (comparative pitch). [Fonte: Silia Vitoratou, King’S College London e BM&L-Italia, marzo 2024].

 

Il più grande studio sull’evoluzione dell’intelligenza ha definito un modello naturale. Jean-Nicolas Audet con colleghi della Rockefeller University e Louis Lefebvre della McGill hanno stabilito che i problemi per procacciarsi gli alimenti che richiedono il superamento di ostacoli quali la rimozione di un coperchio da un contenitore di cibo, costituiscono gli unici elementi certi che consentono di prevedere le dimensioni del cervello e lo sviluppo di comportamento innovativo in natura. Il lavoro, che ha previsto anche indagini su 203 animali di 15 specie diverse (prev. passeracei), 13 delle quali colte allo stato selvatico, ha integrato studi di osservazione sull’intelligenza animale con studi sperimentali in cattività. [Fonte: McGill University e Nature Ecology & Evolution, March 2024].

 

La castità prematrimoniale era un costume di antica tradizione dei pagani romani. Ci è stata rivolta questa domanda: vi sono delle prove documentali di questa tradizione? Rispondiamo che le prove sono innumerevoli; qui ci limitiamo a citare quanto risulta da documenti gallo-romani consultati da Monica Lanfredini in occasione di studi per il nostro seminario sull’Arte del Vivere.

Si legge dell’acquisizione da parte dei Galli degli antichi costumi dei Romani in fatto di morale personale e rito matrimoniale. I giovani promessi sposi, dopo aver vissuto separati e in castità, partecipano a una cerimonia pubblica allestita allo scopo di rendere testimone del contratto il maggior numero possibile di persone. Tutti gli invitati e i convitati spontanei formano un corteo che, al termine della celebrazione, accompagnerà gli sposi alla loro dimora e li “metterà a letto”, secondo un rito simbolico che rappresenta la concessione dell’intimità da parte della comunità, a fronte del solenne impegno pubblico da parte dei due giovani, di avere cura reciproca e della prole che verrà.

Prima dell’epoca cristiana, la castità prematrimoniale dei Romani aveva antiche radici stoiche, scettiche e anche epicuree, ed era considerata la necessaria conseguenza dell’educazione alla temperanza, alla ragione e alla civiltà, che conferiva un profilo di rispettabilità e di affidabilità. Era spesso declinata in termini di decoro, decenza, dignità e stile della persona. [BM&L-Italia, marzo 2024].

 

I geroglifici aiutano a comprendere l’esperienza creativa della scrittura delle origini. Oggi la scrittura è uno strumento appreso al servizio del linguaggio-pensiero e delle esigenze culturali e di comunicazione delle persone alfabetizzate, ossia virtualmente di tutti; ma le cose erano radicalmente diverse cinquemila anni fa, quando un contenuto comunicativo era pensato da una persona, generalmente un sovrano o un governante, e affidato alla rappresentazione grafica di un’altra persona, un tecnico istruito nell’arte di rappresentare il pensiero.

È importante chiarire questo punto per comprendere la specificità dell’esperienza antica e l’interesse che suscita negli studiosi delle funzioni del cervello: oggi scrivere coincide col rendere in simboli grafici la lingua parlata, in antico costituiva una resa diretta del pensiero. Si può obiettare che, a rigore logico, anche nei tempi arcaici, quando un re o un faraone dettava un messaggio a uno scriba, vi era la mediazione del parlato; e questo è vero. Tuttavia, l’esecutore non tracciava la forma linguistica del pensiero come facciamo oggi, ma doveva rivolgere la sua attenzione alla resa dei concetti mediante simboli entrati nell’uso convenzionale come analogie o metonimie di oggetti, fatti, astrazioni ed eventi, e solo accessoriamente ricorrere alla resa di qualche aspetto fonetico[1]. Ma, soprattutto, lo scriba poteva aggiungere di suo alla forma espressiva; non è l’esecutore meccanico di operazioni impersonali totalmente codificate secondo uno standard; deve, sì, osservare la convenzione figurativa principale per conservare la certezza comunicativa, ma ha licenza di ornare e può aggiungere rappresentazioni naturali a suo gusto: il suo lavoro è un’arte.

A queste conclusioni si è giunti grazie agli studi degli egittologi e degli esperti di analisi e decifrazione della scrittura degli antichi Egizi.

Ha sempre un fascino straordinario quel tipo di supporto chiamato dagli egittologi tavolozza d’apparato, paletta, tavoletta o tavola di vittoria, che in realtà era una lastra di roccia sedimentaria adoperata per preparare il colore dei belletti di quell’importante completamento di identità che era il trucco del viso delle donne egiziane, ma spesso destinata ad altri usi e, secondo alcuni, impiegata in eventi cerimoniali. In ogni caso, su queste lastre si trovano sempre figurazioni importanti, che sono allo stesso tempo enigmi di significato e piccole opere d’arte. La più nota di queste è la Tavoletta di Narmer o Tavola della Vittoria di Narmer: il più antico documento di scrittura in ambito egiziano (XXXI sec. a.C.), definito dall’egittologo Bob Brier “il primo documento storico al mondo”[2] e oggi ritenuto una lastra votiva[3].

La tavoletta di siltite o grovacca[4], trovata in perfetto stato di conservazione dagli archeologi britannici James E. Quibell e Frederick W. Green nei resti del Tempio di Horus a Hierakonpolis[5], odierna Kom el-Ahmar (la montagna rossa) o Kom al-Ahmar Necropolis (ca. 3600 a.C.), identificata con la parte meridionale dell’antica città egizia di Nekhen, reca sul lato recto in elegante bassorilievo la raffigurazione del Faraone Narmer nell’atto simbolico di unificare l’Alto e il Basso Egitto[6].

In particolare, il nome del sovrano[7] è rappresentato in un blasone in alto con un pesce e uno scalpello in funzione di simboli fonetici: il pesce codifica n3r, e lo scalpello codifica mr, rendendo la fonetica N3rmr della lingua egizia per “Narmer”. Il Faraone dell’Alto Egitto incombe vittorioso sul nemico, e il Falco Horus gli consegna i prigionieri della terra del papiro, che è il Basso Egitto.

Questo splendido modo artistico di “figurare” per “scrivere” non è mai completamente abbandonato dagli Egizi e rimane nella componente pittografica di quel complesso sistema di segni chiamati geroglifici o scrittura geroglifica dai Greci.

L’arte degli scribi, quali autori-interpreti della scrittura egizia, in realtà gioca su tre livelli di codifica:

1)      valore logografico: il segno sta per la parola di cui costituisce il referente;

2)      valore fonetico: il segno sta per i suoni che compongono la parola;

3)      valore pittografico: indica tra l’altro il valore semantico diacritico tra parole uguali o simili per suono fonetico[8].

Ne risulta un modo complesso di rappresentare significati e concetti, che vede l’intrecciarsi di tre criteri, con una concessione al senso estetico che si comprende bene solo conoscendo queste opere d’arte figurativa da cui ha avuto origine la scrittura dei secoli successivi.

Nelle prime epoche i segni sono disposti con una certa libertà, rendendo più difficile il lavoro di decifrazione moderna; ma già con la II Dinastia si affermano alcune regole compositive: i segni sono sempre disposti in quadrati in serie, ma l’orientamento è ancora affidato alla scuola dello scriba, alla sua abitudine e al suo gusto; infatti, possono andare da destra a sinistra, da sinistra a destra, in verticale o in orizzontale; in tutti i casi, però, gli esseri animati guardano sempre verso l’inizio della riga di scrittura e i vari segni si inseriscono sempre all’interno di un modulo basato sui sottomultipli del quadrato (intero, mezzo, un quarto), senza antiestetici spazi vuoti.

Lo scrivente non sembra considerare l’esigenza del lettore di rilevare subito il messaggio con il suo significato, ma sembra preoccuparsi innanzitutto dell’effetto estetico dell’iscrizione nel suo insieme. Non sapremo mai se il vero motivo di questa priorità era l’intenzione di generare un effetto evocativo sullo “spettatore-lettore” o era in questione una semplice istanza di gusto. In ogni caso, il testo delle iscrizioni su papiri, pareti, oggetti, basamenti assume un valore decorativo unico nella storia della scrittura.

Ai geroglifici nella loro “forma realistica” presto si affianca un sistema secondario, che realizza i segni con pennello e inchiostro, riducendo di molto gli elementi figurativi e ottenendo una scrittura più rapida, secondo quell’esigenza che ha fatto nascere il corsivo (v. in Note e Notizie 24-02-24 Notule – Corsivo: un’invenzione policentrica che rivela i vincoli imposti dal cervello), ma pur sempre con una varietà accurata e tradizionale di segni: lo ieratico, di uso non monumentale. Dallo ieratico si stacca poi come forma autonoma il demotico, impiegato anche per scrivere una lingua diversa, il neoegiziano. [Fonte: Seminario Permanente sull’Arte del Vivere BM&L-Italia, marzo 2024].

 

Notule

BM&L-16 marzo 2024

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] L’errore comune che si commette da bambini, quando su un libro di scuola si trova la riproduzione di un testo di scrittura dell’antico Egitto, è cercare di decifrarlo applicando i principi della nostra scrittura alfabetica o, al contrario, immaginare che siano tutti pittogrammi analogici che esprimono un banale pensiero concretistico.

[2] Robert Brier, Daily Life of the Ancient Egyptians, p. 202, A. Hoyt Hobbs, 1999.

[3] La forma è paragonata a quella di uno scudo, ma la tavoletta è piatta come quelle usate da tavolozza; è alta 64 cm, larga 42 cm e spessa 2,5 cm. È figurata su entrambe le facce. La tavoletta di Narmer è esposta nel Museo di antichità egiziane del Cairo – il più grande museo egittologico al mondo – ed è uno dei primi oggetti che si vedono entrando nel museo.

[4] Una roccia sedimentaria clastica detta, per i clasti mal cerniti, grovacca, dal tedesco Grauwacke = roccia grigia.

[5] Il nome greco della città antica è stato italianizzato in Ieracompoli. Il Tempio di Horus fu definito “deposito principale” dagli archeologi, in quanto enorme giacimento di reperti: la tavoletta fu reperita negli scavi del 1897-98.

[6] Alcuni archeologi hanno identificato Narmer con Menes, leggendario unificatore dell’Egitto, ma gli storici non condividono questa tesi per varie ragioni, ma soprattutto perché la morte di Narmer risulta essere avvenuta in un’epoca posteriore a quella in cui era vissuto Menes, proposto da alcuni quale predecessore di Narmer. D’altra parte, la riunificazione dei due territori potrebbe essere avvenuta nel tempo, progressivamente e per tappe. Secondo Erodoto è Menes che riunifica l’Egitto e devia il corso del fiume Nilo per fondare Menfi (Memphis). Ma la rappresentazione potrebbe semplicemente rendere onore in quel modo al primo Faraone dell’Egitto unificato, dopo la guerra di conquista di Menes.

[7] Il nome in italiano (“Narmer”) corrisponde alla struttura fonetica N3rmr.

[8] Cfr. Giorgio Raimondo Cardona, Storia Universale della Scrittura, p. 127, Edizione CDE (su licenza Arnoldo Mondadori Editore), Milano 1986.